costruirsi un mondo proprio: "de fato" work in progress

lunedì, novembre 10, 2008

"de fato" work in progress

FBartoli 2008

“de fato” habla del tiempo, de sus posos, de sus sedimentos,
de cómo tras mi paso, todo lo vivido parece relacionarse de una forma concreta y constante.

Scolpire il vento I Giacinto Di Pietrantonio

Diciamolo pure: Scolpire il vento è un bel titolo denso di suggestioni e pieno di promesse a partire dal significato primo legato all’impossibilità di condensare una materia così immateriale, mutevole, imprendibile. Ma l’arte, si sa, ci ha da sempre abituato all’impossibile, al “delirante obiettivo di misurare l’assente e scolpire l’intangibile.” (Bartoli). La scultura è un dare corpo, ma come si fa a dare corpo a ciò che corpo non ha? Il vento, fenomeno misterioso e imprendibile che anche per questo ama essere descritto, raccontato. Per esso sono stati creati miti e figure in ogni dove dal classico Eolo della notte dei tempi, all’impiego scientifico delle ali della farfalla descritta dal 1962 da Edward Lorenz per definire la teoria del caos emersa negli ultimi cinquant’anni nella società di esseri pneumatici che siamo e che la pandemia 19 ci ha tragicamente ricordato. Con la testa per aria lasciatemi dire che a Mantova Giulio Romano affresca la Camera dei Venti di Palazzo Te progettata fra il 1527-28, insieme a Niccolò da Milano, anticipando almeno di cinque secoli le teorie del caos e dei crolli all’iniziare di un mondo manierista che andava facendosi moderno con la rottura delle righe prospettiche del Rinascimento. Alla domanda che ci pone e si pone Francesco Bartoli: “Il vento può essere scolpito? Rispondiamo che sì, anche perchè l’aria sposata alla meccanica è entrata da molto nella strumentazione che riguarda la scultura: martelli pneumatici, scalpelli pneumatici, attrezzi ad aria compressa di vario tipo e utilizzo che facilitano di molto il lavoro di scalpellini e scultori a scapito, secondo alcuni, del tocco di mano, che ravviva l’antica e moderna diatriba che ancora resiste nella disputa tra tradizionalisti e modernisti.  Perché non siano parole al vento diciamo anche che il vento è certamente un soggetto presente da sempre nell’arte, sia in pittura che in certi periodi storici o in artisti legati alle tematiche della natura e del mito. Il vento è un elemento naturale una forza lieve o potente, insieme creatrice e distruttrice e per questo che È ciò che permette a Ulisse di viaggiare e scoprire nuovi mondi, ma che, per ordine di Nettuno, ne ritarda il ritorno alla “sua petrosa Itaca, allorché soffia impetuoso sulle vele della nave capitanata dal signor Nessuno. Insomma, senza il vento non ci sarebbe Odissea. Ma qui siamo nell’ambito della mitologia dove il vento è un personaggio divino alleato con Nettuno, mentre Giotto ad Assisi gli da ereticamente la forma del diavolo nella nuvola sotto la gloria di Dio, 1292-93, d’altro canto Mantegna nel San Sebastiano, 1480, Louvre, lo raffigura come cavaliere fatto di nuvola, dacché le nuvole sono gli elementi principi della creatività figurativa della metamorfosi figurale naturale. Chi da piccolo non si è soffermato, magari anche stendendosi a terra, a guardare le nuvole in cui cercare di volta in volta figure di volti, di animali e quant’altro? D’altronde il sommo Leonardo, che di atmosfera se ne intendeva, che dice in proposito? Dice che: “L’aria è più grossa e densa verso terra che verso l’alto, e che per questo le montagne verso la cima appaiono più nitide.” Dice anche: “De' nuvoli. Del rossore de' nuvoli. Della creazione de' nuvoli. De' nuvoli e loro gravità e levità. Perché della nebbia si fa nuvoli. Dell'aria tutta nuvolosa. Dell'ombra de' nuvoli. De' nuvoli sotto la luna.” Di forma in forma in cui il vento ha una funzione principe. Per mettere il discorso in una botte di ferro segnaliamo che Botticelli, principe dei pittori, se ne occupa nei suoi due quadri più noti: La Primavera, 1477-82, e La Nascita di Venere 1485-86, Uffizi, dove un Eolo-Zefiro accigliato soffia su nascita, rinascita della natura dell’amore e della bellezza. D’altro canto Petrarca nel canzoniere aveva già cantato: Zephiro torna, e’l bel tempo rimena. E la scultura? La scultura cerca anch’essa da sempre di imbrigliare l’aria con Gian Lorenzo Bernini che fa muovere i capelli di Apollo e Dafne, 1625, spinti dal vento cosmico della metamorfosi alla galleria Borghese, Roma. Oppure in altri scultori che amano il vento come ne Il vento dell’Ovest, 1870, dell’americano Thomas Ridgeway Gould, o più vicino a noi ad Air de Paris,1919, di Marcel Duchamp e dal 1949 ai buchi e tagli dei concetti spaziali di Lucio Fontana, nonché al Fiato d’artista, 1960, di Piero Manzoni o le Silver clouds, 1966, di Andy Warhol e così via... Certamente Francesco Bartoli non è un artista con la testa tra le nuvole anche se parte della sua opera video Scolpire il vento, 2023, si realizza grazie al passaggio di nuvole e dunque del paesaggio sui volti di pietra arcaici che, nelle parole dell’artista ci porta: “in una ipotetica Arcadia perduta” con “maschere di marmo che simboleggiano una dimensione primitiva in cui l’uomo vive in armonia con il paesaggio che lo ospita.” Ecco dunque compreso il senso di Scolpire il vento, vale a dire confrontarsi ed essere nel paesaggio che oltre alla dimensione simbolica contiene anche quella della storia materiale del territorio: le Alpi Apuane. Massiccio mondialmente conosciuto come le montagne del marmo, materia da cui è nata e continua a nascere tanta scultura, compresa quella del massimo scultore Michelangelo per il quale “la scultura si fa togliendo”, come il nostro pianeta Terra che si è formata e continua a formarsi anche come scultura cosmica dato che da milioni di anni è erosa dal vento. Giacinto Di Pietrantonio dal 1954

Misurare l'assente I Francesco Bartoli

Uno dei miei primi ricordi risale a quando avevo tre anni. Dopo aver discusso con i miei genitori, rubai una valigia dall’armadio di casa e la spinsi verso il cancello della nostra proprietà di campagna e poi ancora oltre…lungo la strada. La valigia di color panna, rigida e spigolosa come le valige di un tempo, conteneva lenzuola bianche ricamate e una coperta. In quell’autunno del 1981 decisi che me ne sarei andato di casa camminando. Soltanto molti anni dopo, avrei trasformato quell’impulso irrefrenabile di fuggire via dalla provincia, nel mio progetto di ricerca artistica Ipassi. Da allora ho vissuto e lavorato altrove gran parte della mia vita, moltissimo all’estero, creando un nuovo me osservatore in ogni luogo che ho attraversato e abitato. Ed è proprio con la curiosità di chi attraversa un luogo e lo osserva con spirito di ricerca che, cinque anni fa, ho iniziato a scoprire le Alpi Apuane, il suo marmo, la sua storia e le sue persone. Mito e memoria, paesaggio e scultura, tecnologia e arte, sono soltanto alcuni dei temi e dei concetti che sono affiorati in questi intensi e complicati anni di ricerca sul territorio di Carrara e d’intorni. Un’ostinata curiosità che mi ha spinto a visitare un luogo complesso alla scoperta delle sue risorse storiche, umane e sociali, ma anche a perdermi completamente nelle sue contraddizioni e nelle sue criticità. Ed è da questo caos necessario e armonico, di echi del passato e stimoli del presente: studi di scultura e paesaggi in bilico, che nasce l’idea di costruire un film poetico dedicato ai materiali dell’arte e al rapporto tra l’uomo e il paesaggio che abita, vive e che in questo caso plasma incessantemente. Un legame, quello tra l’uomo e il paesaggio delle Apuane, che consuma entrambi da secoli. È come se questo territorio fosse destinato a scomparire prematuramente, colpevole suo malgrado, dell’eterna bellezza custodita nelle proprie viscere. Paesaggio poetico, paesaggio fisico e paesaggio immaginario dunque, in un unico lavoro che nasce con il delirante obiettivo di misurare l’assente. Come in una ipotetica Arcadia perduta, le maschere di marmo prodotte e usate nel film, simboleggiano una dimensione primitiva in cui l’uomo vive in armonia con il paesaggio che lo ospita. Scolpire il vento nasce da una riflessione filosofica chiave; la concretezza del vuoto e il peso specifico di un’assenza presenti all’interno delle cave. Nel suo celebre libro Lezioni Americane, Italo Calvino ha scritto a proposito della leggerezza; << Nel De rerum natura Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci. La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo. >>

Ecos: la memoria de los últimos Indigenas de Uruguay

¿Cómo dar forma a las muchas reivindicaciones sociales – a la memoria - de los últimos indios de Uruguay? Huella, pertenencia histórica y memoria de una cultura profunda que, en las últimas décadas, y gracias a las nuevas generaciones, está encontrando su debido espacio en el debate socio-político uruguayo. Una investigación artística de dos meses que me llevó a conversar con los mejores investigadores del país, José Lopez Mazz (antropólogo y arqueólogo) y Gonzalo Tancredi (astrónomo), visitar los lugares de la memoria indígena como Salsipuedes, Villa Soriano, Colonia, Chamangá y Grutas del Palacio y a encontrar los últimos descendientes indígenas como Mónica Michelena y Javier Delgado de la organización Co.Na.Cha. y Rosa Álvarez Pocha en la ciudad de Trinidad. Un contacto con los protagonistas que me permitió crear una recopilación de escritos, grabaciones audio - video y dibujos acerca de la memoria y los rituales de las ultimas comunidades indígenas de Uruguay y hablar de conceptos y ámbitos aparentemente distintos como el Etno-astronomía, la antropología y la arqueología. ECOS es un viaje hacia el origen, una investigación y una reflexión sobre la arqueología de lo humano y sus invisibles rastros en nuestro presente. Francesco Bartoli 2022

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At the entrance of the main space of Dinamo Gallery in Porto, a big canvas titled Hanged Man reminds us that we are approaching an emotional space. Fairy Tales, Religion, Sexuality, Death, Childhood and Adulthood; concepts and references about the last solo show, the first one in Portugal, by Italian visual artist Francesco Bartoli. Scolpire la memoria refers to a kind of renascence, to the endless and intense circle of life. The show is built around the video Infinito finished in 2020 and is connected, poetically and metaphorically, to a particular place; the artist’s studio near Rome. In the show are also presented a selection of drawings from the series Sospiri I Mutazioni I Figure and a series of new sculptures called Scolpire la memoria that Bartoli will finish in the gallery during the preparation of the show. Small sculptures made of uncooked clay, objects and clothes that have been collected only few days ago from the old house of the artist’s grandfather. The idea of this piece is about molding the past with clay, leaving wet sculptures get dry in the gallery; as if time finally could turn into a piece of art even certain feelings. Infinito. Going back to the time when I used to jump rope as a signal of joy, resistance, pureness and strength. There is a moment in our childhood when something unexpected happens and we crash with the adult world. Our dreams seem to vanish and we jump into the real and heavy life. This happened to me when on the first of January 1992 I discovered my grandfather hanging on the stairs of his house. He killed himself, but before that, he left the key outside the front door waiting for someone (me) to rescue him. Years went by and after many years traveling and living abroad, I came back to Italy and built my own studio in the garage right next to my grandfather property. The energy of that land has changed since then. The images that compose this installation were filmed in my grandfather's house in 2020.

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Going for a walk in the streets of any South Korean city is like suddenly finding oneself in an endless intersection of intoxicating roads. Before getting involved in any creative project, I found it convenient to ask myself a key question: what should I fixate my attention on? I decided to concentrate on the silence and minimal actions of those persons that enliven the dynamic Korean society.

I created these works during the five weeks I spent in the city of Gwangju, on the occasion of its’ important art Biennale.

Far from trying to understand the Story of this country, my intention was to create a series of short stories with varying degrees of social relevance that would talk about the routine and tasks in a Korean metropolis. From the first moment, I considered the appropriateness of inspiring my work on anonymous stories, on subjects that, regardless of their “normality”, could reveal something important about that unknown place to me.

In a society where the frenetic production of technological “objects” and the enactment of old traditions are mixed to the point of being blended, each ordinary step through the usual streets becomes a new discovery. The markets, the public transport, the sensation of living in a continuous periphery –in spite of being in an urban centre–, make the images that compose this project travel from one atmosphere to another, in a culture that, as I see it, navigates between a burning westernization and the survival of indigenous customs.

Francesco Bartoli 2012

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-Residual Shapes, Video 8’ 42’’

A new environment, habits and culture invaded my entire body and pushed me to find a new way of expressing myself. In that moment I was also thinking how to elude the pencil on paper and to find a new relationship with the blank sheet of paper. I needed to record these news thoughts and emotions in some way and I decided to turn them into shapes.

I was trying to leave traces on papers, to draw in a sculptural and physical way. The ideas that I had in that moment turned into Greek masks, medieval Icons or many lines that would help to sketch new identities.

AUTORITRATTO: SERIES ABOUT THE FAMILY 2008/2012

This four works were developed at three different stages of my life but belong to the same train of thought. Three different media joined together by my reflections on the place where I was raised and the personages that still inhabit it. The strangeness experienced when I encountered the same context years later, the memories that came up in the conversations about the past, and a constant examination on my present role as an artist, are just some of the emotions and themes developed in this series.

I was looking for understanding in a place I had always believed to be little receptive and instead found acceptance and unlimited respect; a kind of abnegation that the members of my family feel towards a person that was able to become detached from the overwhelming bond one has with his roots. The contradictory feelings and the doubts experienced during my short visits home prompted this ever-changing self-portrait composed of the places and characters of my childhood. However, I voluntarily left out from this autoritratto the images of my present.

Una imagen no es una escultura. Esta afirmación sugerente y abierta nos introdujo en el “ejercicio” de contemplar dos colecciones de esculturas muy distintas a través del cine en 16mm. Dos colecciones, la del Museo de San Gregorio de Valladolid y la del Museo de Arte Romano de Mérida, que desde el principio nos presentaban un reto importante: construir una “historia común” en una sola instalación.

El riesgo de hacer un film narrativo sobre los museos nos acompañó a lo largo de todo el proceso. Pero la constancia por eludir el aspecto histórico-documental que nos ofrecían las obras nos hizo experimentar nuevos caminos. Definitivamente, quisimos centrar la mirada en lo velado de la escultura y nos adentramos en aquellos materiales, lugares y personas que la rodean. Las manos reconciliadoras de una restauradora, las burbujas de aire que envuelven unas cabezas de mármol, el tiempo “muerto” que llena las salas de un lleno impalpable y el viaje al origen de los materiales en una cantera de mármol o las campiñas, nos parecieron historias arrinconadas que merecía la pena rescatar.

Con la ayuda de una puesta en escena sencilla y sin artilugios cinematográficos, nuestro reto más importante fue el de encontrar una luz reconciliadora que sirviera de común denominador para los dos museos. Trabajar con luz natural en casi todas las escenas anuló cualquier artificio museográfico y nos obligó a mirar con nuevos ojos lo que estábamos grabando.

El resultado fue el camino inverso. Embalar y transportar unas esculturas, limpiar y restaurar con parsimonia un fresco o una talla, los espacios vacíos, las obras expuestas, todo se fundió en un único cuento visual guiado por la naturalidad del paso del tiempo. Cada cosa tenía un peso, y tenía que ser grabada con el mismo respecto y la misma dedicación para que en nuestra obra se hiciera visible cuan imprescindible son todas ellas en la vida de estos dos museos. Las esculturas que viven en ellos lo hacen sólo gracias a la aportación de muchos elementos desconocidos; hay otras vidas fuera de las salas expositivas. Sin embargo, el montaje del Film sigue siendo más abstracto que lineal. No quisimos contar los ciclos tal y como se desarrollan, y no explicamos nada a cerca del proceso. Lo que intentamos fue intensificar la mirada en unos gestos y unos espacios mínimos pero importantes.

La elección del medio cinematográfico nos pareció la más adecuada para infundir a la instalación aún más ligereza. Una ligereza que contrasta con las esculturas que tiene a su alrededor y que a la vez surge de ellas. Las tres dimensiones se aplanan para separarnos aún más de la materia y dejarnos espectadores de lo intangible. Una imagen no es una escultura pero en todo el proceso quisimos que hiciera parte de ella con el intento de atrapar el aire que inevitablemente reside entre los objetos y el espectador. El “ejercicio” sigue en pie y la luz que dispara el proyector lo testifica. Ligereza y peso se complementan.

Francesco Bartoli 2011

Nº24

Primera de una series de acciones pictóricas que había planeado a lo largo de la ciudad, “Nº24”, consistían en intervenir sobre lugares en los que el paso del tiempo había dejado sus vestigios. En este caso el numeró veinticuatro sugería una entrada quizás tapiada años atrás.

Con la ayuda de un color negro dibujé una puerta debajo del numero, dejé por algunos momentos la nueva entrada y poco después, con gestos rápidos y seguros, la volví a ocultar con el color blanco.

La ilusión desaparecía negando el resultado del dibujo precedente y devolviendo a la pared su proyección imaginativa. Desde ahora una nueva memoria, la de mi acción, ocultaría la anterior.

Los signos ineludibles del tiempo y de las experiencias de otros se convirtieron en antiguas pisadas que me otorgaron la capacidad de imaginar lo que un día pudo haber existido debajo de ese numero.

Con los pies firmemente clavados en las nubes

Texto exposición

La idea central de este trabajo es la de convertir la sala de exposición en un escenario transitable, un lugar “irreal” capaz de envolver a los visitantes y brindarles una experiencia física con la obra.

Inspirado en las obsesivas y evocadoras atmósferas teatrales de Samuel Beckett, esta intervención nace de la necesidad de recrear una habitación desde donde poder narrar muchas de las experiencias fotográficas y humanas de mi último año: Un trayecto que empezó boca abajo en Berlín (de donde procede la imagen representativa de la exposición) y que después de pasar por Roma, Madrid y Barcelona culmina con mi estancia en Bogotá.

Con este montaje y la multiplicidad de apariencias de la misma instantánea quise evidenciar también la capacidad de mutación del medio fotográfico y, como consecuencia, sus variables lecturas.

Algunas historias sólo el tiempo las puede contar y nosotros, los artistas, deberíamos convertirnos en los privilegiados testigos capaz de destilarlas. Trabajo de esta forma, con los pies bien anclados al movimiento y a las corrientes.

Francesco Bartoli 2009

Il nascondiglio perfetto non é

Il nascondiglio é uno spazio fratturato, un’intromissione, vive nell’intento fragile e variabile di mantenersi a salvo.

Non riesco a restare immobile, la realtá viene scossa da una misera felicitá, l’assurdo rimane in uno stato di approssimazione constante. Non sono piú.

Il nascondiglio perfetto non é....la vita filtra da ogni parte.
Lo sforzo per mantenermi intatto é inutile, l’energia svanisce ed evapora attraverso le fessure dell’intimo verso l’esterno, non posso muovermi, atonito spettatore di me stesso guardo la solenne vittoria dell’intromissione.

Tutto sembra rimanere ingenuamente puro e fedele, il mio nascondiglio non funziona per il meglio, la realtá é tangibile, eppure svanisce, l’armonia ed il caos, inseparabili, guidano le mie virtú e l’inganno perdura a lungo.
Il nascondiglio perfetto non é.

Il nascondiglio é un’azione video fotografica que vuole svelare la nostra fragile facciata quotidiana.
Video e fotografie sono i testimoni indelebili delle costanti intromissioni che seminano incertezze nel mio ridotto e precario spazio.

Ho cercato di ricostruire uno spazio intimo dove le cose accadono nonostante il peso dei filtri instaurati dalla nostra perversa solitudine, veniamo invasi, scossi e penetrati, nel nostro proprio nascondiglio.
Il nascondiglio...perfetto non é, mai.